Riflessione di padre Ezio Casella sul tema dell’incontro pastorale 2021 a partire dal testo di Ef 4, 1-16
Questo brano ha qualcosa di importante da dirci sulla chiesa. Nei primi sei versetti ci parla dell’unità della Chiesa. Il brano inizia con una formula esortativa: «io dunque, prigioniero nel Signore vi esorto».
Vi esorto: a che cosa? A comportarvi in maniera degna della vocazione ricevuta, a camminare in modo degno della vocazione con cui siete stati chiamati. Abbiamo qui un elemento già estremamente importante. Paolo esorta a fare unità tra la vocazione e la prassi, tra ciò che si professa e il come si vive. Siamo in presenza di una seconda generazione cristiana. La vita ecclesiale ha mostrato in tante persone, in tanti individui, in tanti singoli, in tanti ministri, in tanti predicatori, in tanti evangelizzatori, persone mosse da avidità, sete di denaro, interessi personali, che hanno combinato pasticci a livello sessuale e via dicendo.
Tendere alla coerenza
Il nostro autore chiama ad una coerenza di vita che riconosciamo come spesso manca anche tra noi. È in Gesù che c’è quella pienezza di coincidenza tra pensare, dire e agire, in noi no. Questo è un dramma, una sofferenza che spesso fa soffrire il credente, il presbitero, il mondo religioso che si vede distante da ciò che lui stesso vorrebbe e tuttavia, prima di fare un discorso sull’unità della Chiesa l’autore ricorda l’importanza dell’unità personale. Saremmo veramente ipocriti se ci mettessimo a lavorare per l’unità della chiesa, a servizio della comunione della nostra comunità parrocchiale vivendo delle scissioni spaventose in noi stessi. Potremmo anche fare bene ma quanto meno il problema è la verità in noi. Bisogna essere molto realisti e riconoscere che una distanza rispetto al Vangelo e alla vocazione ricevuta c’è e resterà sempre ma certo la tensione deve essere quella di ridurre questo sdoppiamento che poi alla lunga è foriero di malessere profondo anche a livello psicologico della persona. Dunque tendere ad una coerenza. Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto. E subito dà delle modalità. L’autore dice: con ogni umiltà, dolcezza, magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, vale a dire fuggite la pretesa, le rivendicazioni, abbiate quei sentimenti che furono in Cristo Gesù: tapeinofronunes, che non è umiltà ma autenticità: l’aderire a quella terra che noi siamo, a quell’humus da cui viene la nostra creaturalità.
Una regola spirituale
Ci viene data una indicazione spirituale molto importante. Dovremmo imparare negli spazi ecclesiali in cui viviamo, nella vita comunitaria, che c’è una regola per vivere con gli altri, ed è questa: io non ho potere sugli altri. Certo che ce l’ho un potere e sarebbe bene che lo esercitassi: quello su di me. Impariamo che l’unico potere che abbiamo davvero è su di noi. Impariamo a ricevere le tante esortazioni apostoliche, neotestamentarie, evangeliche da applicare a noi, a me, al mio cuore, alla mia mente, al mio corpo, al mio comportamento più che rigettarle subito su altri. Lì c’è il grande potere che noi abbiamo: su di noi, non sugli altri.
La mitezza: non debolezza ma forza
La mitezza non è quell’atteggiamento passivo e un po’ remissivo di persone che caratterialmente si trovano ad essere “dolciastre”. La mitezza è una virtù di forza, non di debolezza e anzi è la capacità di mettere dei limiti alla nostra forza, la capacità di essere più forti della nostra forza per consentire che anche l’altro esista, per dare spazio anche all’altro, per far crescere la fraternità e la comunione accanto a noi, per camminare insieme. Questo è l’agire di Dio dalla creazione in poi. Dio crea non solo lavorando ma anche astenendosi dal lavorare, mettendo un alt alla sua forza creatrice e la fecondità del suo lavorare dipende anche dalla sua capacità di astenersi, mettere un limite, un alt al suo lavorare. Dunque la mitezza, l’umiltà, la dolcezza e la sopportazione come ciò che può custodire l’unità dello spirito nella comunità. Può custodire una comunità in armonia, può tessere i vari fili che compongono il tessuto comunitario in modo armonico. Ecco dunque questa esortazione culmina nel custodire l’unità dello spirito, quindi custodire questo fondo di unanimità, grazie al vincolo della pace.
La pazienza: arte di vivere l’incompiuto
L’autore ci dice che per vivere lo spazio ecclesiale, la vita comunitaria, occorre una grande pazienza: “sopportandovi a vicenda”. In realtà la sopportazione e la pazienza non è solo verso gli altri. Non c’è comunità religiosa o parrocchiale o famiglia in cui non ci sia da mettere in atto la pazienza che è la capacità di chi soprattutto ha responsabilità e autorità di piegarsi, chinarsi per portare e sostenere altri che sono più deboli, malati. Questo è vitale in una vita comunitaria. Ma la pazienza la si esercita anche nei confronti di se stessi. La pazienza è l’arte di vivere l’incompiuto e noi di incompiuto ne vediamo tanto in noi stessi. L’autore ce lo ha appena ricordato: «Comportatevi in maniera degna della vocazione he avete ricevuto». Spesso siamo ben distanti dalla vocazione che abbiamo ricevuto. Nel nostro concreto lì c’è davvero un lavoro molto importante da mettere in atto. Il nostro autore parlerà alla fine di lotta spirituale. Ma c’è anche un altro elemento: arrivare ad accettare chi noi siamo realmente e non idealmente e forse c’è da arrivare ad amare quel nemico che è in noi, quel nemico che mi conduce ad avere quegli istinti, quelle pulsioni che detesto, che vorrei non ci fossero e che tuttavia potrò iniziare ad addomesticare, governare, sciogliere per quanto possibile solo a partire dal momento in cui le accetterò e riconoscerò che ci sono altrimenti la postura di opposizione non farà che rafforzare ciò che odio in me stesso. Amare il nemico è il cuore del cristianesimo e non è solo il nemico fuori ma anche il nemico che ho dentro. Amarlo non nel senso di scendere a compromessi ma nel senso di guardare a noi stessi come Dio ci guarda quindi amandoci in toto. Solo da questa potenza di amore potrà anche essere sciolto il male che c’è in noi. Solo da questo riconoscimento di essere amati in profondità, ecco il Vangelo, ecco la rivelazione cristiana: anche il male, l’ombra, la tenebra che c’è in me può conoscere un ridimensionamento. Io posso riuscire a trovare forme di addomesticamento della tenebra che c’è in me, senza illudermi di poter arrivare a guarire completamente. La comunione nella chiesa ha una dimensione anche interiore e non potremmo pensarla solo come struttura, organizzazione, pura esteriorità.
Un’unità che è dono
Dal v. 4 al 6 l’autore parla della Chiesa. Il testo inizia a parlare della Chiesa parlando di una unità che è già data, di una unità che è costituita dal corpo di Cristo che è la Chiesa in cui entrano tutti i battezzati, un solo spirito: lo spirito della chiesa, unitario, comunionale che è suscitato dallo Spirito di Dio. Una sola speranza che è quella che deriva dalla vocazione comune, la speranza di cui parla Col 1,27: «Cristo in voi speranza della gloria». Ancora: un solo Signore: Gesù Cristo Signore di tutti, una sola fede, cioè una fede in cui si resta fermi, saldi (cfr. Col 1,23) e un solo battesimo, un solo rito visibile che incorpora nello spazio ecclesiale facendo rivestire il Cristo, e un solo Dio e Padre di tutti. L’unità della Chiesa è anche unità delle Chiese, fa parte di una Chiesa matura. Una chiesa divisa che sia la nostra comunità o le Chiese (cattolica, ortodossa, riformata, ecc.) tutte stanno nello spazio di una immaturità e una distanza da quello che è il Regno di Dio in Cristo Gesù.
Da che cosa è formata l’unità ecclesiale, di che cosa ha bisogno l’unità della Chiesa che deve conoscere delle diversificazione, come ci vien detto subito dopo? Noi possiamo dire questo a partire da Ef: la koinonia, la comunione ecclesiale chiede: una sola fede, un solo battesimo, un solo ministero, una sola vita comunitaria in cui entra l’eucaristia e la solidarietà per i bisogni dei più poveri, la giustizia verso i bisognosi. Questo ha fatto sempre parte della Chiesa. La Chiesa cattolica si manifesta così. Nei primi tre secoli il termine cattolico era riservato alla chiesa locale: Corinto, Filippi, … dove si celebrava l’Eucaristia e dove tutto questo era visibile. LG 26 ce lo ricorda: “Questa Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime assemblee locali di fedeli i quali aderendo ai loro pastori sono anche esse chiamate chiese nel NT.” La pienezza della chiesa cattolica è lì nella più sparuta assemblea locale che si raduna per l’eucaristia. In ogni assemblea, per quanto piccola, si realizza il mistero della Chiesa Una – Santa. Certamente l’unità della Chiesa non comporta una sola teologia, una sola liturgia o pastorale. Si dice: una sola fede, un solo battesimo… Sul piano delle realizzazioni disciplinari, giuridiche, pastorali, già i vangeli presentano una pluralità di realizzazioni. C’è il grande compito e la grande difficoltà e di una piccola comunità e delle grandi chiese: come articolare diversità e comunione? Gli elementi sono quelli che la tradizione ci dona come essenziali per una unità che non venga scalfita o ferita da una pluralità di espressioni. Le culture e i modi di esprimersi devono poter entrare nello spazio eucaristico, fanno parte di quel pane e vino, alimenti essenziali della cultura del posto che danno gloria a Dio nelle lingue locali. Le lingue sono espressioni di culture. Giovanni Crisostomo ha una bellissima espressione nella sua Omelia 65.ma su Giovanni: Chi sta a Roma sa che gli Indi sono sue membra. Scrive nel IV secolo e gli Indi sono veramente molto lontani per quell’epoca. Percepire questa qualità della Chiesa riunita attorno all’Eucaristia, di assumere le culture nelle loro espressioni e trovare questa compaginazione ordinata attorno a questi elementi strutturanti ed essenziali. Ma poi ancora ecco che a ciascuno di noi tuttavia è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo (v. 7).
Un’unità che non è appiattimento
L’unità della Chiesa non può essere un appiattimento, una omologazione, una uniformità. Quindi ben venga la vivacità che crea problemi, ben venga una parola altra, una parola di dissenso, perché questo fa parte di una giusta dialettica che deve attraversare uno spazio ecclesiale. Dopo il discorso dell’unità ecco il discorso di “ciascuno” perché nello spazio ecclesiale la persona è importante. La persona è importante e speriamo che almeno nella chiesa lo continui a restare. Al mondo teconologizzato non interessa per niente l’individuo ma il funzionario, lo schiacciabottoni, la cinghia di trasmissione ma l’individuo scompare nel mondo tecnologizzato, non gli interessa in quanto tale. Speriamo che nella Chiesa le burocratizzazioni non arrivino a questo. Il nostro autore ci riconsentirà di ridire con molta forza questo primato della persona. Ci sono in ciascuno dei doni differenziati: l’unico dono di Dio, il dono dello Spirito, si manifesta in espressioni differenziate nei singoli. 1Pt 4,10 parla della grazia personale che si manifesta in ciascuno, un testo parallelo che dice: ciascuno viva secondo la grazia ricevuta mettendola al servizio degli altri come buoni amministratori di una variopinta grazia di Dio. La grazia è variopinta, come la sapienza di Dio che è multiforme e quindi è stata data a ciascuno personalizzata. C’è da prendere sul serio questo lavoro di personalizzazione del dono di Dio. Fino a che punto la personalizzazione non è una singolarità bizzarra? Occorre mettere in atto un discernimento: non qualunque follia o qualunque folle esprime la multiforme sapienza di Dio; ma lì esprimiamo la sgangheratissima follia nostra; dobbiamo riconoscerlo e lo sappiamo bene. Tuttavia il nostro autore per dare autorevolezza al suo discorso si rifa all’AT citando il Sal 68,19: Asceso in alto ha portato con sé prigionieri, ha dato doni agli uomini. Il testo ebraico del Sal 68 al v. 19 dice: dagli uomini hai ricevuto doni. Qui è diverso: ha dato doni. Cosa c’è dietro? Qui è uno dei rari casi in cui un testo neotestamentario si rifa alla tradizione Targumica cioè al Targum, che era la traduzione aramaica, liturgica del testo biblico. Nella traduzione aramaica targumica dice: Tu, Mosè, sei salito in alto, hai condotto prigionieri, hai imparato le parole della Legge, le hai donate agli uomini. Cioè il testo viene tradotto e ampiamente interpretato nel senso che Mosè è salito sul monte, ha ricevuto le tavole della legge e le ha date agli uomini. Paolo riprende questa tradizione ma cambia di nuovo: qui non c’è più Mosè ma Cristo. È asceso al cielo (ascensione) e ha distribuito doni (Spirito Santo) agli uomini. L’autore quindi sta parlando del mistero di Cristo risorto e asceso al cielo che dona lo Spirito Santo agli uomini. E che cosa ha di proprio lo Spirito Santo nella compaginazione ecclesiale? Che articola ciò che è comune e ciò che è individuale. Tutti e ciascuno. Anche nel cap. 2 degli Atti nel giorno di Pentecoste: tutti e ciascuno. Lo Spirito ha questa arte faticosa di tessere una comunione fra ciò che è comune e ciò che è individuale, rispettando le persone, le individualità ma compaginandole in una rete comune. Questa è la grande arte della comunione, del camminare insieme, del tenere insieme un tessuto comunitario. La difficoltà di riuscire a mantenere l’unità senza evidentemente svenderla e di saper comunque avere quella duttilità che deve tener conto delle differenze. Si parla di una articolazione del dono dello Spirito in doni che strutturano la comunità, che fanno vivere la comunità, che nutrono la vita spirituale della comunità. E si tratta essenzialmente di ministeri legati al servizio della Parola. Il fine di tutto è l’edificazione del corpo di Cristo (v. 12). I ministeri sono a servizio di tutti i battezzati affinché tutti edifichino il corpo di Cristo. Nella comunità cristiana si è con – servi, si è servi insieme per giungere all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, all’uomo perfetto, a quello sviluppo che realizza la pienezza del Cristo. Quello che colpisce molto in questo testo è che l’autore parla di una maturità della fede che non riguarda solo i credenti (quello Paolo lo ha detto già in 1 Cor 13,11: quando ero bambino ragionavo da bambino…, divenuto uomo ho eliminato ciò che era da bambino); qui si parla a livello ecclesiale, una chiesa matura, la dimensione è collettiva, comunitaria; deve anch’essa uscire dagli spazi della immaturità.
Un’unità da conservare
L’unità della chiesa non è alla fine dei nostri sforzi ma è suscitata dal dono dello Spirito. Sgorgata dal dono dello Spirito che Cristo risorto e asceso al cielo ha fatto. L’unità preesiste agli sforzi dei cristiani e della chiesa che devono soltanto conservare tale unità (4,3: conservare – terein, solliciti servare – l’unità dello spirito). Va custodita perché è frutto dello Spirito Santo. Questo atteggiamento di custodia non sembri minimalista, roba da poco; è in realtà un atteggiamento dinamico, tutt’altro che passivo. Implica l’apertura allo Spirito e il dinamismo della crescita. Troviamo nei vv. 15 – 16: agendo secondo verità nella carità cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui che è il Capo, Cristo. Dunque lo Spirito diventa principio dinamico interiore che fa crescere il singolo e la comunità verso Cristo stesso, verso una pienezza che ha la sua misura nella statura della pienezza della maturità di Cristo stesso. Questo conservare implica una dimensione di dinamismo, di tensione e di crescita della chiesa nel suo insieme.
L’elogio dell’imperfezione
Cosa dice il nostro autore? Se dobbiamo crescere verso la perfezione vuol dire che nella perfezione non ci siamo. Vuol dire che la condizione normale di una chiesa è la imperfezione. La coscienza della imperfezione, della immaturità rispetto a colui che è il capo del corpo, cioè Cristo, è costitutiva della chiesa. È cosciente di ciò che manca a raggiungere una pienezza che le sta davanti. Il Cristo che è la Verità (Ef 4,21) eccede la Chiesa, ne è il Capo. La Chiesa tutt’al più confessa la Verità ma non la possiede. Se pensa di possederla la rende immediatamente ridicola. Pascal ha delle belle pagine nei suoi Pensieri sulla Verità che può essere resa un idolo quando è scissa dalla Carità, perciò si parla della Verità nella Carità. Maturità fa rima con umiltà: l’Autore ne parla da subito. Ma anche Verità fa rima con Umiltà, tanto che in Ef 4,15 si dice che questa Verità, nello spazio cristiano, deve essere sempre temprata dalla carità altrimenti è una verità che acceca, una verità che giudica, una verità che condanna, una verità che schiaccia: non è più la verità cristiana perché Cristo non ha condannato, perché Cristo non ha schiacciato. Dunque maturità diventa anche equilibriio: equilibrio tra verità e amore, tra verità e agape. La maturità a cui Paolo esorta è la maturità possibile a chi vive in uno spazio di ciò che è parziale e imperfetto nella coscienza che la perfezione sarà davvero tale solo nell’eschaton, nel Regno. Allora l’unità è parte costitutiva di una Chiesa adulta; questo significa che le lacerazioni, le divisioni interne, le contrapposizioni tra un gruppo e l’altro, tra un partito e l’altro, tra un movimento e l’altro, le invidie, le gelosie sono segno di una comunità instabile attraversata da immaturità, così come sono segno non solo di peccato ma anche di immaturità, di inadeguatezza, le divisioni tra le Chiese. La maturità cristiana concepisce l’unità nella Chiesa come un dono da accogliere ma anche da realizzare. La maturità è un atteggiamento di chi sa ricevere ma anche donare a livello personale, a livello antropologico, a livello spirituale e anche comunitario ed ecclesiale. L’atteggiamento di maturità ecclesiale è che per incontrare l’altro io rinuncio a delle cose che non sono né un peccato né un male ma che diventano un ostacolo nell’incontro con l’altro.
La perfezione nell’agape
Cifra della maturità cristiana alla fine è l’amore, l’agape. La santità personale non è tanto definita dal non peccare (non c’è nessuno che rischia questo) ma è la capacità di carità. La perfezione di cui si parla (teleiotes) è una maturità, una pienezza e se si vuole anche perfezione se non la intendiamo come perfezione morale tanto che è l’agape quell’amore vissuto da Cristo, l’amore di Dio narrato da Cristo che è il vincolo della perfezione. Lì c’è la maturità. Dove c’è la maturità? Laddove si raggiunge un livello di libertà per cui ci si asserve volontariamente all’agape, il vincolo della perfezione (Col 3,14). Sopportatevi a vicenda e perdonatevi, se avviene che uno si lamenti di un altro: come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi; sopra tutto ciò rivestitevi di carità che è il vincolo della perfezione. Lì si trova unità e maturità. La perfezione di cui Paolo parla consiste nella maturità, nella fuoriuscita cosciente dall’età infantile. Si può restare bambocci anche sul piano della fede. C’è un’età infantile dice Ef 4,14 che è caratterizzata da che cosa? Non saremo più fanciulli in balia delle onde, agiti da ciò che avviene fuori, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, incapaci di discernimento di fede, incantati dall’ultimo grido teologico o ancora attaccati a chissà quali affermazioni teologiche ampiamente ormai passate, ingannati dagli uomini con quell’astuzia che trascina all’errore: elementi della immaturità, instabilità, non avere un timone interiore, non avere una saldezza. Un ministro, uno che ha una responsabilità nello spazio della comunità ecclesiale, deve avere una saldezza tra i suoi, non il rigore della rigidità di chi non avendo autorevolezza e non avendola sviluppata in sé deve rifugiarsi dietro forme dure, aspre, rigorose e rigide, ma l’autorevolezza che viene dalla saldezza. L’instabile è imprevedibile, inaffidabile, ne spara una ogni giorno, ne inventa una ogni momento. Questa è immaturità, manipolabilità, in balia di qualsiasi vento di dottrina, che si lascia ingannare da qualunque persona o parola, uno che non ha radici in se stesso, un’assenza di personalità, uno che non sa abitare le parole che dice, non sa essere nelle parole che dice.
La crescita nella fede
Da 4,17 a 5,20 vedremo che infinite volte l’Autore parla del parlare, del registro della comunicazione verbale. È importante nel ministro della Parola perché la devono dire loro, con le loro parole, devono intrecciare relazioni con le loro parole oltre che con i loro gesti e le loro azioni. C’è indubbiamente un grosso discorso da fare sulla qualità della nostra parola. L’uomo maturo è l’uomo che abita la parola che dice, è sottomesso alla parola che pronuncia, c’è completamente dentro, non è la parola vaga. A volte parliamo con delle persone e poi ci domandiamo: che cosa mi ha detto? Nel parlare si svela molto anche chi uno è a livello affettivo, a livello di identità personale. Paolo dice in 1 Cor 13,11: Quand’ero bambino parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino ma divenuto uomo ciò che era da bambino l’ho abbandonato, c’è stato un voler crescere. Sì, bisogna voler crescere. C’è un’età che va avanti fin quando morte non ci separa, anagraficamente cresciamo, ma per crescere spiritualmente, per crescere a livello umano, bisogna anche volere, la crescita diventa una responsabilità, non un fatto che va da sé. La maturità di cui parla Paolo trova il suo contenuto proprio nelle due realtà dell’Amore e della libertà: la libertà decide, vuole, si sottomette liberamente a. A livello comunitario la maturità si misura nella capacità di articolare nell’unità le differenze, le alterità, la pluralità nell’unità della chiesa. Un giusto equilibrio tra ciò che è comune e ciò che è individuale. Ef 4,11-13 tradotto in modo letterale è «Egli diede alcuni come profeti…» e conclude con un criterio cristologico: crescere alla misura della taglia della pienezza di Cristo. L’uomo perfetto è l’uomo adulto. Un testo di Filone di Alessandria ci aiuta a capire questa crescita che va verso l’uomo adulto e che deve riguardare il singolo quanto la comunità. Filone parla delle varie fasi della vita e dice che c’è il neonato, il bambino, il fanciullo, il ragazzo, l’adolescente, il giovinetto, il giovane, l’uomo perfetto. Arriviamo come vertice all’uomo perfetto: teleios aner, la stessa espressione che troviamo in Ef 4,13. Ora ogni comunità cristiana è chiamata a mettersi in questo cammino, nell’uscire dall’età minorile, infantile e diventare adulta. Il nostro testo ci dice che una chiesa è anzitutto una chiesa in cui le persone contano più delle strutture, contano più delle funzioni che svolgono, contano più dei ruoli.
Una comunità matura
Una comunità matura, adulta, non va confusa con una comunità efficiente, ben organizzata, ma è una comunità anzitutto in cui l’altro viene riconosciuto come persona. Potremmo dire così: la comunità matura è quella che si comprende come corpo, non come macchina. Una macchina ha i pezzi ricambiabili. Un’azienda ciò che persegue è la funzionalità, l’efficienza. Nel corpo – ce lo ha già insegnato Paolo in 1Cor 12,22 – tutte le membra sono importanti e soprattutto le più povere, nascoste, deboli. È un’ottica cristiana che può anche essere scandalosa ma è così. Scandalizza anche noi, il nostro operare, quando valorizziamo quelle persone perché fanno tanto, perché sono efficaci. Questo avviene a livello ecclesiale, a livello delle nostre comunità e così via. Dimentichiamo la preziosità della persona a monte, prima di tutto pensiamo a ciò che può fare, anche di santo, buono e pastoralmente utile ed efficace. Comunità mature sono allora quelle in cui le diverse componenti ecclesiali non si mettono a far la gara tra di loro, non entrano in concorrenza, non stilano classifiche di merito, non si permettono di agire senza, contro, davanti alle altre. Nello spazio della chiesa come corpo non può l’occhio dire alla mano: non ho bisogno di te; la testa non può dire ai piedi: non ho bisogno di voi; il bisogno, il dono, il debito, è reciproco. Ciò che vige nello spazio della comunità come corpo è questa reciprocità. I membri più poveri e denutriti non aiuteranno in chissà quali imprese pastorali o che ma sono forse più direttamente il sacramento della presenza del Crocifisso, della sua debolezza. Il v. 11, dove si parla di apostoli, profeti, pastori, annunciatori, maestri, sono tutti ministeri della parola. Sono tutti in relazione alla trasmissione del vangelo che è la vera opera centrale dello spazio cristiano. Sono ricordati non in relazione alla strutturazione gerarchica o all’ordine della comunità. Sono a servizio della concreta vita che sgorga dalla parola di Dio, dal vangelo. Una comunità dovrebbe avere anche quel discernimento che le consente di riconoscere delle priorità e ordinare la vita intorno a ciò che è davvero essenziale: la Parola di Dio e la vita spirituale dei membri che da essa sgorga. In riferimento agli altri ministeri ricordati in Ef 4,11 ss. siamo nello spazio del dono e della gratuità: ha dato…. Soprattutto si ricorda che i ministeri sono tesi a far crescere la maturità dei cristiani, non a vedere i credenti in uno stato di minorità, di dipendenza, di inferiorità. Qui si coglie appunto l’esercizio dell’autorità, la capacità di far crescere l’altro. La diaconia di questi ministeri esprime parzialmente quella grazia che è stata data a ciascuno (Ef 4,7) cioè a ogni membro della comunità. La comunità matura tende perciò a sollecitare la responsabilità di tutti e di ciascuno, nel rispetto delle capacità dei doni e dei limiti di ciascuno e dei doni personali di ciascuno. Perché la Chiesa come tale sia serva occorre che la dimensione del servire non sia rispetto a qualcuno ma diventa di tutti. Bello il commento di Romano Penna alla lettera degli Efesinio laddove dice che ogni cristiano è un servus servorum Dei. La capacità dunque di diventare soggetto di servizio per gli altri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, il servizio, la diaconia, quindi la capacità di diventare servi verso gli altri senza restare dei destinatari del servizio.