Marinella Perroni: «La sinodalità come stile ecclesiale»

Introduzione

Ringrazio di cuore don Domenico per le occasioni che mi ha dato in questo anno di incrociare la realtà della vostra chiesa (un incontro con il clero, un incontro con i direttori di Curia e ora questa assemblea diocesana): è stato un modo per riprendere il contatto con una realtà ecclesiale che avevo già avuto modo di incontrare (ricordo con particolare piacere il bell’incontro sull’Eucaristia di diversi anni fa insieme a Rosi Bindi e Nicoletta Dentico), e vi dico subito che per me mettere il naso nelle realtà ecclesiali del nostro paese ha sempre un valore, in qualche modo, balsamico. Gli intellettuali hanno bisogno di vedere che la realtà è sempre più ricca e positiva di quanto loro riescano a immaginare e, soprattutto, di quanto un’informazione diventata ormai tossica presenta quotidianamente come “cronaca”, sia essa politica o ecclesiale, poco importa che, invece che un racconto di fatti, altro non è che una litania di misfatti.

Vi ringrazio anche per il bel materiale che è possibile reperire sul vostro sito e che ha accompagnato la preparazione di questo incontro ma, soprattutto, deve continuare ad accompagnare le assemblee della vostra chiesa.

Vi confesso che, leggendolo, mi sono più volte domandata cosa altro avrei potuto dire: la mappa è precisa, c’è luce per camminare spediti, sono indicate con chiarezza le diverse tappe da perseguire. In questi giorni, poi, è stato pubblicato il calendario del cammino sinodale di tutta la chiesa italiana che vedrà evidentemente coinvolti anche voi fino al 2025.

Dove agganciare allora la mia riflessione senza che questo significhi trasformarla in un vuoto e ripetitivo esercizio retorico? L’idea me l’ha data il creatore di Eataly, Oscar Farinetti, testimonial insieme ad altri personaggi importanti della 24ore Businnes school che da 25 anni si occupa di formazione. In un brevissimo intervento televisivo Farinetti pronuncia poche parole che però mi hanno dettato la linea: «Studia per assumere qualche certezza, ma poi coltiva i dubbi». Ho pensato che avrei potuto intendere il mio compito di stasera come un “mettere in disordine” quanto invece dal vostro sito appare già ordinatamente previsto, agitare un po’ le acque, far venire qualche dubbio: rileggere insomma il vostro patrimonio di idee e di progetti con un po’ di “liquido di contrasto”, cioè a partire da alcune istanze critiche. Sperando assolutamente che il vostro progetto resti quello che avete deciso, ma sia però anche animato da una dialettica interna e rinsaldato da un esame critico che possa consentire di vedere le singole idee e i diversi progetti illuminati da una sorta di raggi X.

Vorrei innanzi tutto 1. riflettere sulla pandemia come fantasma ecclesiale; 2. tentare poi un approfondimento critico del tema della sinodalità che terrà impegnata la nostra chiesa italiana per quattro anni, fino al giubileo del 2025; 3. terminare infine con alcune rapide considerazioni su 3.1. evangelizzazione e catechesi, 3.2. liturgia e 3.3. carità, i tre ambiti cioè in cui si suddividerà il lavoro delle vostre comunità parrocchiali, provando però a interrogarmi su cosa dovrebbe comportare che venga portato avanti “in stile sinodale”.

Il fantasma della pandemia

Partiamo da alcune considerazioni del tutto evidenti: questa pandemia ci ha detto e ci sta dicendo alcune cose. Le sta dicendo agli scienziati, le sta dicendo ai politici, le sta dicendo a chi ha responsabilità produttive, le sta dicendo a chi ha responsabilità religiose.

Le sta dicendo anche a noi. Se non altro per il bombardamento da parte degli organi di informazione che, anche se in questo secondo anno non potevano più contare sulla stessa ansiosa morbosità dei primi tempi, continuano però a martellarci più volte al giorno con la trasmissione di dati, di aggiornamenti, di ipotesi e con un pernicioso diario di presunta riflessione sulla democrazia.

Siamo malati, e il covid ha reso solo più evidente che il tipo di vita che conduciamo è malato, è tossico. Questo vale per le nostre società opulente che soggiacciono agli imperativi dei mercati e ai dettami della droga…. ma vale ancor di più per masse di persone che vivono sotto ogni soglia di umanità e che, prima o poi, pretenderanno risarcimenti.

È malato (e gravemente) il nostro pianeta e non siamo in grado di approvvigionarci dei farmaci che potrebbero curarlo (diminuire le emissioni di CO2, rendere efficaci le nuove risorse energetiche, bloccare gli allevamenti intensivi…). È malata anche la nostra chiesa, e lo è come tutte le chiese storiche che subiscono ormai da troppo tempo un’emorragia di fedeli senza trovare né una forza di attrazione sufficiente a creare una nuova maggioranza né la capacità di dare vita a minoranze solide e al contempo creative. Anche perché, oggi, nell’epoca dell’“usa e getta”, qualsiasi cosa che nasce ha vita breve.

La pandemia ha colpito poi la nostra chiesa cattolica con particolare virulenza perché l’ha trovata già immunodepressa per il logoramento degli ultimi anni a causa degli scandali economici e sessuali. Anche però perché, in modo tutto particolare in Italia, la chiesa cattolica ha investito tutto nella pratica sacramentale che si è andata poi progressivamente riducendo alla pratica della messa domenicale. La estenuante discussione pubblica sulle messe sì-messe no, sulle messe reali e le messe virtuali, sulle chiese aperte e le chiese chiuse ha messo a nudo tutta la fragilità di un sistema religioso ormai ridotto ai minimi. Su questo, inevitabilmente, la pandemia ha avuto un effetto disastroso. Anche se è pur vero che in alcuni casi ha invece stimolato la creatività per attivare modalità nuove di liturgia domestica, la questione di fondo resta comunque molto seria: senza forme di vita comunitaria la prassi di fede rischia di ridursi a un intellettualismo elitario e, anche se in molti hanno imparato a servirsi dei supporti digitali per accedere a convegni e seminari, liturgie e colloqui individuali, la comunità di fede non è riducibile a una sorta di smart worship vissuto agli arresti domiciliari.

Abbiamo avuto e abbiamo però tuttora difficoltà a riconoscere e accettare di essere malati, soprattutto se siamo ancora giovani e produttivi o, ancor di più, se siamo giovanissimi e affamati di vita. Si può anche non accettare la malattia, ma questo non significa che la malattia non ci sia, e si rischia quindi solo di accrescerne l’aggressività.

Non c’è dubbio che quando c’è uno stato di malattia, e di malattia grave, dopo un primo tempo di rifiuto deve subentrare necessariamente la capacità di accettare la situazione, anche se lunga, anche se richiede a volte un allontanamento forzato dalla nostra quotidianità, dalle relazioni, dal lavoro, dalle attività di tempo libero.

Inevitabile che una situazione di “malattia”, e di malattia grave, induca all’inizio preoccupazione e paura, forse anche una prima reazione di esaltazione (“ne usciremo migliori”, “andrà tutto bene” …) e poi sfinimento e mancanza di reattività.

Personalmente, ho la sensazione che oggi, però, a tutto questo è invece subentrata la fretta. Se da una parte si può capire, perché non vogliamo più considerarci malati, dall’altra è molto pericoloso perché non ci diamo più il tempo necessario per la convalescenza e per riconoscere i veri e a volte drammatici “effetti secondari” della pandemia. Abbiamo voglia di lasciarci tutto alle spalle. Questo momento, invece, richiede tempo, analisi, verifiche: proviamo a ricacciare il fantasma, a rinchiuderlo nell’armadio, mentre sarebbe quanto mai opportuno, a mio avviso, che le comunità cristiane non avessero fretta di riprendere esattamente dal punto in cui, da quel tragico 22 febbraio 2020, siamo stati costretti a entrare in un tempo sospeso, in un’ansia spesso ingestibile, in un’opprimente angoscia per il futuro.

Credo che le comunità cristiane debbano verificare, invece, che tutto non può riprendere come prima. Indietro non si torna. Allora, la prima riflessione che vi invito a fare, e a fare in modo sinodale, cioè in un confronto aperto e prolungato che comincia oggi e proseguirà poi nelle vostre comunità parrocchiali, è proprio su quali sono i prezzi che la chiesa di Rieti ha pagato alla pandemia e su quanti ancora ne dovrà pagare, su cosa non è più recuperabile e su quello che invece ha resistito al passaggio dell’uragano, nonché su quanto di nuovo potrebbe venire alla luce. Tutto questo significa, a mio avviso, interrogarsi a fondo sul prefisso “ri-”. Mi spiego.

Ritorno dell’identico?

“Ri-dire la fede”, “ri-animare la carità”, “ri-dare la speranza”: questa la scansione del vostro programma diocesano e parrocchiale. E si insiste: ri-generazione, ri-nascita, ri-nnovamento. Anche se, opportunamente, è del tutto dichiarato che lo scopo è “affinché tutto non resti come prima”. Io credo, allora, che è proprio da qui che dovrete partire. Ma: senza fretta.

Mi sembra che al riguardo un ottimo tracciato lo offre il piccolo libro che fa parte dei vostri materiali ed è stato messo sul sito in formato pdf scaricabile. Il titolo è Qualcosa da ri-dire. Tracce per percorsi ecclesiali ed è curato da un gruppo di studiosi formatosi ad hoc che, riprendendo le parole di Papa Francesco, si è dato il nome “Insieme sulla stessa barca” ed ha lavorato durante il primo lockdown cercando di venire incontro al forte impatto che la pandemia stava avendo sulla quotidianità ecclesiale.

Una delle considerazioni introduttorie che possiamo leggere in questo libro mi sembra decisiva: «Il prefisso “ri-” è quanto mai adatto ad esprimere la reiterazione, il senso di impotenza, la difficoltà di immaginare il futuro e fare progetti. Eppure è proprio in queste crepe delle nostre abituali sicurezze che può farsi strada una nuova visione: il prefisso “ri-” ha anche un significato rigenerativo e dinamico, esprime l’intrapresa con nuova energia di un cammino o di un’opera, indica una novità, un nuovo modo di affrontare e vedere la realtà. La realtà inedita di questo passaggio storico richiede di essere “detta” con parole nuove eppure antiche». Anche voi avete usato parole antiche per descrivere il vostro programma: evangelizzazione, liturgia, carità sono in fondo termini standard di qualsiasi piano pastorale che nulla concedono al linguaggio suggestivo con cui, oggi, si tenta di captare un’attenzione e una benevolenza ormai non più scontata, ma sono parole che chiedono di essere “dette”, discusse, esplicitate.

Il testo però prosegue mettendo in evidenza il doppio risvolto di questo prefisso “ri”: «“Ri-dire” significa infatti ripetere, ribadire, ritornare alle origini, raccogliendo l’eredità di parole che hanno innervato la spiritualità e la teologia cristiana, ma significa anche introdurre una interpretazione critica e dinamica, aperta al nuovo, capace di smascherare fissismi e pregiudizi. Il prefisso “ri-”, nella sua potenzialità generativa, richiama all’azione…». Per concludere con una implicita denuncia di rischio e, insieme, una chiara apertura di credito: «un “ri-” non nostalgico ci avrà parlato, allo stesso tempo di un “di nuovo” e di un “dall’alto”». Il riferimento alle parole che Gesù pronuncia nel suo dialogo con Nicodemo è esplicito, e il rabbino che, sia pure con il favore della notte, andava in cerca del Messia può divenire una bella icona che sintetizza il vostro cammino: a lui che rischia di capire la realtà solo in un senso, ma si ritrova così su una strada senza uscita (Gv 3,4: «Gli disse Nicodèmo: “Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?”»), Gesù propone di dare un senso altro a parole antiche, di rigenerarle facendole scaturire “dall’alto”. Molto potremmo dire sugli infiniti significati potenziali di questo avverbio: nascere dall’alto … dalla preghiera, dal confronto con la Scrittura, dalla comprensione critica della tradizione della chiesa, dalle celebrazioni della fede comunitaria, da «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono…» (GS 1). Dovremmo forse dirci l’un l’altro come capiamo quell’avverbio “dall’alto”.

«Un “ri-” non nostalgico»: sono impressionata dalla forza di persuasione che ha in questo momento nella cultura di questo nostro paese, dal punto di vista sia politico che ecclesiale, l’attrazione nostalgica verso il passato, che la maggioranza non ha certo vissuto, ma che vi si àncora come un naufrago a un relitto.

Mi torna in mente la nostalgia per le cipolle d’Egitto da parte del popolo di Israele stanco di mangiare manna durante la traversata del deserto: «La gente raccogliticcia, in mezzo a loro, fu presa da grande bramosia, e anche gli Israeliti ripresero a piangere e dissero: “Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cetrioli, dei cocomeri, dei porri, delle cipolle e dell’aglio. Ora la nostra gola inaridisce; non c’è più nulla, i nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Nm 11,4-7). Un “ri-” non nostalgico è generativo: qui sta il punto perché essere generativi costa, comporta decisione e responsabilità, paziente gestazione, credito al futuro, tutte dimensioni che, in questo tempo di depressione collettiva, sono difficili da trovare. Ma che ci sono, soprattutto nei giovani.

Credo di poterlo chiedere anche a voi perché io, per prima, sono vecchia: una società di vecchi, una chiesa di vecchi può essere generativa? Certo che non è l’anagrafe che conta, e troppo spesso i nostri giovani nostalgici di un passato che non vogliono che passi sono più vecchi di molti di noi. Certo che la Bibbia è punteggiata di uteri che ri-fioriscono e generano anche in vecchiaia, da quello di Sara a quello di Elisabetta.

È però indiscutibile che una società, di qualsiasi tipo essa sia, o si rinnova o si condanna all’insignificanza. Nel testo del libro dei Numeri appena citato è contenuta un’esclamazione di Mosè che dovrebbe essere il grido di battaglia di ogni vescovo o parroco «“Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!”» (Nm 11,29): riprese dal profeta Gioele (3,1-2), queste parole non delineano forse la visione prospettica che Pietro propone alla chiesa nata dalla pentecoste (At 2,17-18)?

So benissimo che sto correndo il rischio di cadere o, meglio ancora, di scadere nella retorica che, invece di narrare la realtà, la mistifica. Per questo ritengo che una riflessione sulla sinodalità come stile ecclesiale sia a questo punto quanto mai opportuna perché impone di fare i conti con la realtà dei fatti.

La sinodalità come “stile”

Dobbiamo partire da un’ammissione che difficilmente può essere contraddetta: la nostra chiesa cattolica non è una chiesa sinodale. Non per cattiveria, ma per storia. Non lo è, semplicemente perché non può esserlo, ma ciò non significa che non possa diventarlo. Col tempo la chiesa cattolica ha assunto una forma ecclesiale verticistica e centralizzata, polarizzata sull’autorità del Sommo Pontefice che solo in parte e, come mostra la storia, non senza contrasti, è stata mitigata dall’esercizio della collegialità episcopale nei concili. Parlare di “chiesa sinodale” significa allora parlare “dell’isola che non c’è”.

Papa Francesco ha però capito che la vera riforma della chiesa passa proprio da lì. D’altra parte, la volontà del conclave che lo ha eletto è stata chiara in proposito: la chiesa cattolica aveva bisogno urgente di essere riformata. In pochi però, forse, avevano avuto il coraggio e la lungimiranza di capire che la crisi che attanaglia oggi la chiesa cattolico-romana chiede interventi che siano strutturali e non solo congiunturali perché viviamo una crisi sistemica, come mostra l’inesorabile scisma silenzioso che ogni anno allontana numeri consistenti di fedeli da una pratica di fede condivisa. Il realismo evangelico è illuminante: «Nessuno strappa un pezzo da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio; altrimenti il nuovo lo strappa e al vecchio non si adatta il pezzo preso dal nuovo» (Lc 5,36).

Quanto si intende con il termine “sinodalità” implica non soltanto indispensabili riforme degli apparati, come la curia romana, o di procedure, come il funzionamento degli organismi preposti all’economia, ma rimanda a una riforma dell’identità stessa dell’istituzione ecclesiastica. “Sinodalità” è un termine suggestivo, che affascina alcuni e spaventa altri, ma che significa condivisione di una stessa strada, di uno stesso cammino. Una chiesa clericale non è una chiesa in cammino, è una chiesa ferma, paralizzata, mentre una chiesa sinodale è una chiesa che si mette in cammino. Non si tratta di darsi da fare, di moltiplicare le riunioni, si tratta di uscire dall’apatia e dall’indifferenza, dalla logica del “si è sempre fatto così”. Né si tratta di schierarsi pro o contro papa Francesco: non è in gioco il suo pontificato, che ha già acquisito titoli di merito e di demerito davanti alla storia, ma è in gioco il futuro della nostra chiesa.

Basta pensare che l’ultima grande riforma della chiesa, che ha definito la sua forma identitaria ad intra come ad extra, cioè il suo impianto istituzionale nonché il suo modo di rapportarsi al mondo, risale all’epoca medievale, più precisamente all’XI secolo. È con quella riforma voluta da Gregorio VII che la chiesa ha assunto il modello clericale che permane ancora oggi: una concezione teocratica del potere, la conseguente convinzione della superiorità del potere spirituale su ogni autorità temporale e l’affermazione di un ferreo centralismo romano e di una rigida struttura clericale. Il concilio Vaticano II ha finalmente avviato quell’uscita dall’era gregoriana di cui la chiesa aveva ormai enorme bisogno, poteva solo dare il via perché era in gioco una trasformazione la cui reale efficacia si sarebbe giocata tutta nei processi che ne avrebbero dovuto scandire la ricezione. Una ricezione osteggiata in realtà da molte parti e in tutti i modi, a conferma della percezione che il Concilio aveva avviato quell’onda d’urto necessaria per far uscire la chiesa cattolico-romana dal suo passato e cominciare a investire le sue energie sul suo futuro.

A suo modo, cioè secondo la sua personalità e secondo i canoni della sua spiritualità gesuita, Francesco ha capito molto bene tutto questo e ha smosso le acque. Certo, tutti aspettiamo di capire come sarà la riforma della Curia romana, ma Francesco sa molto bene che solo su quella parola “sinodalità” si gioca l’unica vera riforma sistemica che può cambiare volto alla chiesa. Perché tocca il ganglio vitale di qualsiasi istituzione, cioè la gestione del potere, perché richiede procedure di partecipazione, perché ha bisogno di organismi deliberativi e non solo consultivi. Quando, dopo il Concilio, ha istituito il Sinodo dei vescovi Paolo VI ha mostrato, da una parte, di capire perfettamente che dalla guida di una chiesa ormai mondializzata non poteva essere tenuto fuori l’episcopato delle chiese locali; non ce l’ha però fatta a superare il modello gregoriano perché ha creato un organismo, il Sinodo dei vescovi appunto, con funzione consultiva e non deliberativa. Le infuocate discussioni che accompagnano ormai da tempo il Sinodo sul diritto o meno di voto riservato non solo ai vescovi ma aperto a tutti coloro che vi partecipano, donne comprese, non sono altro che un corollario: col tempo si è sentita la necessità di rendere il Sinodo più rappresentativo allargandolo alla partecipazione, oltre che di esperti, anche di religiosi e laici, donne comprese e, benché si tratti in fondo non di deliberare ma soltanto di votare mozioni da sottoporre all’autorità del Pontefice, il problema viene posto da più parti. Personalmente, preferirei un sinodo di vescovi unicamente di vescovi e con diritto di voto riservato solo a vescovi, ma con un qualche con carattere deliberativo. Ma il Sinodo dei vescovi dovrebbe rappresentare solo uno dei cerchi concentrici in cui una chiesa esprime e esercita la sua sinodalità.

Non c’è dubbio, però, che quando si parla di stile sinodale si pone un problema di gestione delle procedure di partecipazione tra le quali anche quella decisionale. La chiesa tedesca ha deciso di dare il voto a tutti i partecipanti e si è tirata addosso critiche forti. Mi sembra però opportuno mettervi in guardia da un uso del termine “sinodale” che, per non uscire dal regime paternalistico e clericale, resta del tutto romantico: quando Francesco ha parlato di “conversione del papato” ha detto qualcosa di molto molto serio che, nella logica della sinodalità, comporta, a cascata, conversione dell’episcopato, del presbiterato e del laicato. Per inventare forme di partecipazione alla responsabilità ecclesiale tutte da scoprire e sperimentare.

Per questo ho trovato molto interessante un articolo uscito poco tempo fa su un sito francese, che vi suggerisco di leggere, in cui Jesús Martinez Gordo mette in guardia da “L’“infarto teologico” della sinodalità”: se il prossimo sinodo dei vescovi sulla sinodalità non terrà in considerazione la corresponsabilità di tutti i battezzati, rischia di ingenerare una grossa frustrazione, ma la corresponsabilità di tutti i battezzati non si gioca soltanto nell’evangelizzazione e nella celebrazione, ma anche e soprattutto nel governo e nel magistero della Chiesa1. Una tesi audace, ma molto molto realista.

Diciamocelo però allora con coraggio: che antidoti hanno a disposizione le comunità diocesane o parrocchiali nei confronti di vescovi e parroci accentratori, di diaconi pretenziosi, di laici e laiche chiacchieroni e indolenti? Anche le chiese vivono tra l’essere e il voler/dover essere: sarebbe stupido pensare il contrario.

L’autore degli Atti degli Apostoli dipinge per ben due volte il “quadro ideale” della chiesa delle origini sulla base del paradigma di ciò che la comunità dei discepoli del risorto sapeva di essere chiamata a dover essere (2,42-47: «Erano perseveranti nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati»; cfr. 4,32-37), ma poi non può tacere il fatto che di questa comunità fanno parte anche due egoisti come Anania e Saffira e che Pietro instaura una sorta di clima di terrore perché li maledice fino a farli morire perché non corrispondono al modello ideale (5,1-11).

E, in fondo, tutta la prima parte del racconto di Atti, se da un lato tende a elaborare una sorta di agiografia ecclesiale, dall’altra non può tacere sui fatti e raccontare storie di scissioni e di tradimenti, di conflitti e di equilibri faticosamente costruiti e rapidamente dimenticati. Perché la vita delle chiese è questo e non può essere che questo: è corpo di Cristo, e i corpi vivono nel tempo e nello spazio, sono figli della storia, si ammalano e invecchiano. Non a caso le lettere di Paolo ci mettono di fronte a comunità del tutto reali in cui con grande fatica l’apostolo deve sostenere o condannare, approvare o esortare.

In una chiesa sinodale a questa fatica apostolica che impone di distruggere e di costruire sono chiamati a partecipare tutti i battezzati. Noi dichiariamo nel Credo che crediamo che la chiesa sia una santa cattolica e apostolica: in un’ottica sinodale ciò significa che nessun membro del corpo di Cristo è escluso dal ministero dell’unità della sua chiesa locale come della chiesa universale, che i battezzati sono tutti santificati dallo Spirito, che tutti condividono la missione “fino agli estremi confini della terra”, che è compito di ciascuno l’annuncio del kerigma e la fondazione della chiesa sulla tradizione apostolica. Parole forti che oggi si pretende di declinare dentro il paradigma complessivo della sinodalità. Padre Ezio Casella conclude uno dei testi preparatori sul tema del vostro incontro pastorale 2021 con queste parole: “Bello il commento di Romano Penna alla lettera degli Efesini laddove dice che ogni cristiano è un servus servorum Dei”. Bello, lo condivido, ma ci rendiamo conto di quante sono e possono essere le implicazioni di questa affermazione nel momento in cui quella che era per eccellenza la definizione del Papa diventa la definizione di ogni credente?

Non voglio in nessun modo frenare gli entusiasmi che, almeno in alcuni, hanno accompagnato la proposta di un sinodo anche per la chiesa italiana, perché sono del tutto d’accordo che solo la strada della sinodalità può portare le nostre chiese locali e l’intera chiesa universale fuori dall’impasse. Proprio perché ci credo, però, voglio mettervi in guardia da un uso improprio del termine sinodalità, nonché dal rischio di rubricarlo nel lessico di una spiritualità rarefatta e disincarnata.

La sinodalità sta nel fatto che tutti noi, in virtù del battesimo, siamo chiamati alla responsabilità “in solido” della porzione di chiesa di cui facciamo parte. Ciascuno secondo il compito ecclesiale che riveste, ma senza paura di configurare con trasparenza cosa i diversi compiti significano e comportano in una chiesa che è tutta ministeriale perché è tutta diaconale. Era uno dei grandi sogni del Concilio: ripensare la ministerialità della chiesa e la sua articolazione ministeriale. Ora papa Francesco lo ha rilanciato con ancora maggiore coraggio chiedendo alla chiesa di imboccare la strada della sinodalità, ben sapendo cioè che ripensare i ministeri chiede di ripensare la forma di chiesa nel suo insieme, lasciarsi alle spalle i mille anni segnati dalla riforma gregoriana e ridisegnare il volto della chiesa del terzo millennio.

Evangelizzazione liturgia carità

Mi limito a poche annotazioni perché molto del lavoro preparatorio su questi tre ambiti della vita della vostra chiesa lo avete già svolto. Cosa significa che una comunità cristiana assume, nei tre ambiti in cui esprime la sua fedeltà al vangelo, uno stile sinodale?

Nel suo vangelo Luca ci presenta un’icona di cosa significhi per la comunità dei discepoli di Gesù uno stile sinodale. In uno dei sommari con cui punteggia la sua narrazione, quello che dedica all’attività di Gesù in Galilea, Luca annota: «In seguito egli se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio. C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità…» (8,1-3).

“Sinodo” significa condivisione della stessa strada. L’enfasi cade su entrambe le componenti del termine: il prefisso “syn” (con, insieme) e “odos” (strada). Dovremmo riflettere di più su questa immagine lucana da cui possiamo ricavare una delle più belle descrizioni della comunità ecclesiale. Gesù cammina, è lui a stabilire la strada e, soprattutto, a definire lo scopo, l’annuncio della buona notizia del regno di Dio, e la destinazione, tutte le città e i villaggi. In questo cammino missionario “c’erano con lui”: questa è la comunità ecclesiale, discepoli, uomini e donne, che condividono il suo cammino, che lo accompagnano, che sono “syn auto”, con lui. Per questo il sinodo di una comunità credente non è principalmente il frutto di un’organizzazione, ma l’assunzione di una guida, Gesù, e di uno scopo, l’annuncio del regno. Ci sarebbe molto da dire, ma forse non sarebbe male ipotizzare un tempo di ritiro e preghiera su questo punto: una comunità sinodale non è una start up, per questo dedica tempo al discernimento, unica vera premessa all’obbedienza evangelica.

Fin dall’inizio, dunque, la fede in Gesù Messia risorto è stata capita come una prassi di vita, una strada. Quando racconta della sua decisione di perseguitare i primi cristiani, Paolo dice che avrebbe voluto «condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via» (At 9,2). La fede in Gesù è stata considerata fin dall’inizio uno stile di vita, un preciso modo di vivere il giudaismo e l’appartenenza alla sinagoga, dal momento che con la risurrezione di Gesù l’era messianica aveva avuto inizio.

Vorrei insistere sul fatto che la “strada” e quindi il sinodo vede partecipi uomini e donne. Mi sembra un punto discriminante, che lascio alla vostra discussione perché i tre ambiti in cui si sviluppa l’impegno della vostra chiesa, evangelizzazione, liturgia e carità non possono prevedere aree riservate che contemplino di mettere in campo esclusioni. Un conto è ragionare sul ruolo che i diversi carismi possono giocare in un ambito piuttosto che in un altro, un conto è alzare muri di esclusione.

So bene evidentemente che, soprattutto per quanto riguarda la liturgia, e in particolare la predicazione, la nostra chiesa prevede delle restrizioni, e non mi interessa qui contestarle. Mi sento però di sottolineare che lo stesso Papa Francesco ha capito che su questo punto la nostra chiesa non può più tergiversare e l’istituzione di due ministeri come l’accolitato e il lettorato non più vincolati all’appartenenza sessuale va nella linea di un’immagine della liturgia cristiana che non legittimi discriminazioni: un conto sono le diversità, un conto le discriminazioni.

Certo, se per alcune delle nostre chiese locali questa decisione di Francesco segnala e aggrava un ritardo, per altre ingenera scandalo. C’è necessità di una consapevolezza diffusa e radicata che diventi patrimonio comune e la potremo raggiungere solo accettando di riflettere e studiare, approfondire e pensare. Al riguardo vi suggerisco la recentissima pubblicazione di Cettina Militello Fraternità e sororità. Sfida per la chiesa e la liturgia2 e vi inviterei a ragionare sul fatto che spesso nelle nostre comunità, diversamente dalla fraternità, la sororità rappresenta un problema.

Infine, da un punto di vista complessivo, cioè che si riferisce a tutti e tre gli ambiti del vostro programma pastorale, mi sentirei di dire che la linea guida per verificare se e quanto essi vengono vissuti in stile sinodale potrebbe essere un’espressione che il concilio Vaticano II àncora all’azione liturgica ma che dovrebbe invece, a mio avviso, fare da criterio per tutta la prassi di vita di fede di una comunità: actuosa participatio. Capiamo perfettamente l’urgenza che il Concilio esprimeva di restituire la celebrazione liturgica alla comunità di tutti i battezzati dopo che secoli di clericalismo avevano scavato una profonda separazione tra chi celebrava e chi assisteva. E, mi sembra di poter dire che, se una comunità è capace di esprimere una actuosa participatio in ambito liturgico, questa è la riprova che è una comunità che cammina in stile sinodale.

Credo però che scegliere il criterio dell’actuosa participatio anche per l’evangelizzazione e la carità imponga una verifica ancora più radicale della propria identità sinodale. In ambito liturgico, alla fin fine, ci si può limitare a una semplice, anche se più allargata, distribuzione dei ruoli: c’è chi canta, chi legge, chi consacra, chi serve all’altare… Nell’ambito dell’evangelizzazione e in quello della carità, invece, la questione della condivisione delle responsabilità e della gestione dell’autorità diventa cruciale. E qui, su questo punto, credo proprio che dobbiamo avere l’umiltà di accettare che tutti abbiamo davvero molto molto da imparare.

Forse, il nostro compito è oggi quello di cominciare, di avviare dinamiche, di sopportarne pazientemente l’imprecisione e di ricercarne, più pazientemente ancora, la correzione. Non saremo noi, credo, la generazione che vivrà la vita ecclesiale in stile sinodale. C’è una cultura da creare, c’è una progressività da accettare, sono previste sconfitte da sopportare. Il cammino, anche se è di sequela del Risorto, è accidentato oltre che faticoso. E, forse, il compito che spetta alla nostra generazione è quello di aprire, avviare, seminare. Ma, se non avremo la pazienza di farlo, ai nostri figli e ai figli dei nostri figli consegneremo una chiesa ormai spenta, un sale senza sapore che può essere solo calpestato.

Consentitemi allora di concludere con un invito accorato. Vi citavo all’inizio le parole di Oscar Farinetti – «Studia per assumere qualche certezza, ma poi coltiva i dubbi» – e ho cercato di insistere sull’importanza della riflessione critica, del vaglio al quale sottoporre quanto viviamo, crediamo e pensiamo. Anche quando si tratta di valori, aspirazioni, impegni. Ora vorrei invece dirvi altro: una cosa dobbiamo fare, prima di tutto, se vogliamo essere pietre vive di una chiesa che è chiamata oggi dallo Spirito a trasformare sé stessa per abbandonare la forma clericale e assumere quella sinodale ed è studiare. Studiate, approfondite, ragionate, confrontatevi. Fatelo singolarmente e fatelo insieme3.

Investire in formazione è l’unico modo possibile per preparare il futuro. La formazione chiede inventiva, chiede risorse economiche, chiede lungimiranza, chiede la pazienza dei passi brevi nella consapevolezza dei tempi lunghi. Questo primo passo impone più coraggio di quanto possiamo immaginare. In fondo, infatti, tutti noi, vescovo, preti, laici, sappiamo già abbastanza bene qual è il copione che dobbiamo recitare e quali sono i nostri ruoli in commedia, ma acquisire uno stile sinodale richiede di cambiare copione. È l’augurio che vi faccio perché questi anni portino frutto e il loro frutto sia duraturo.

Grazie!

1https://www.finesettimana.org/

2 Cittadella, Assisi 2021.

3 Un buon inizio può essere la lettura di un piccolo ma prezioso libro: Francesco Cosentino, Quando finisce la notte, EDB, Bologna 2021. In particolare le pp. 71-103.